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Luigi Martini, il comandante della Lazio 1974: “Abbiamo vinto da uomini liberi”

Nostra intervista a 50 anni dallo Scudetto

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Luigi Martini ha percorso migliaia di chilometri fra terra e cielo. “Sto bene e cammino ancora sulle mie gambe”, dice scherzando al telefono mentre racconta una vita colorata di bianco celeste. Campione d’Italia con la Lazio del 1974, pilota di linea nei voli Alitalia e onorevole di Alleanza Nazionale nel parlamento della Repubblica. “Sei calciatore fino a quando scendi in campo, ma sei pilota per tutta la vita” afferma “il comandante” Martini, terzino di spinta in una squadra passata alla storia. Gli eroi del 1974 agli occhi dei laziali “sono tutti giovani e belli”: l’esuberanza fisica di Chinaglia, le serpentine di Garlaschelli, la classe di D’Amico e i balzi felini di Felice Pulici. Non si può dimenticare nemmeno Tommaso Maestrelli, il condottiero dallo sguardo fermo e l’animo buono capace di portare alla gloria una banda di giovani simbolo degli anni ’70.

La storia della Lazio campione d’Italia è immersa nella Roma degli anni di piombo e dei film polizieschi. Le strade fumavano violenza e quei ragazzi con i capelli al vento erano dipinti come gangsters. Non calciatori ma bad boys con gli occhiali scuri, la passione per il grilletto e il whiskey nelle serate pazze al Jackie O’. Leggenda, chiacchiere, verità e fumo di sigaretta in un alone di romanticismo. Tempi andati in cui le super star del pallone erano uomini mortali fatti di carne, passione e coraggio. Il capitolo finale viene stampato il 12 maggio di cinquant’anni fa. Mentre si vota per il referendum abrogativo sul divorzio migliaia di laziali sugli spalti dell’Olimpico osservano Giorgio Chinaglia. Il nove mette la palla sul dischetto e sbatte in rete il gol che regala alla Lazio il primo scudetto della sua storia. Luigi Martini ricorda tutto come se fosse ieri.

Se chiude gli occhi e pensa a quel 12 maggio qual è la prima immagine?

Al fischio finale ero da solo nello spogliatoio con la clavicola rotta ma non è questa l’immagine che porto dentro. Vedo una gioia infinita che ha pervaso ognuno di noi, Maestrelli con le mani nei capelli che cerca di non scomporsi e di contenere la gioia che aveva dentro. Vedo undici compagni che hanno realizzato il sogno comune e una storia che non finirà mai

Quando avete capito che potevate vincere quel campionato?

La partita chiave è stata quella contro la Juventus vinta 3-1 perché i bianconeri erano i nostri antagonisti. La prova più forte invece quando siamo andati sotto in casa contro il Verona e abbiamo chiuso il primo tempo in svantaggio 1-2. Il nostro mister Tommaso Maestrelli ha capito che eravamo nervosi e ci ha sbarrato la strada degli spogliatoi e rimandandoci subito in campo. Quando i tifosi ci hanno visto rientrare sullo stadio è calato il silenzio assoluto e poi ci hanno incitato con una convinzione diversa. Ho davanti agli occhi la meraviglia nei nostri avversari e dell’arbitro. Alla fine abbiamo vinto 4-2.

Sono stati scritti fiumi di parole sulla squadra e la divisone in due clan: ci racconta quegli allenamenti all’ultimo sangue?

Noi non volevamo mai darla vinta a nessuno e gli allenamenti erano davvero particolari. Indossavamo i fratini e la partitella durava due ore o anche tre ore perché Chinaglia non voleva mai perdere.  Quando faceva buio puntavamo i fari delle macchine sul campo e nessuno voleva indietreggiare. Io non volevo mai darla vinta a Chinaglia e tra i due gruppi ci guardavamo in cagnesco. Durante le partite di campionato però mangiavamo a morsi tutti gli avversari.

Chi era il leader della squadra?

Chinaglia era il leader ed era lui che suonava la carica. Io caratterialmente non volevo mai dargliela vinta e non ci stavo che facesse il capetto: arrivava tardi agli allenamenti, voleva decidere lui se si andava in ritiro oppure no e il suo atteggiamento mi dava fastidio. Però avevo 24 anni e non l’avevo compreso bene. Faceva così perché nel suo animo era turbato e aveva sempre voglia di vincere

Com’è cambiato il suo rapporto con Chinaglia?

Ci vuole sempre un trauma e per noi è stata la morte di Maestrelli. Io non ero in grado di telefonargli, volevo fare il duro e non avevo il coraggio di dirgli “ti devo parlare”Un giorno ci siamo incontrati per caso al Fleming e ci siamo commossi tutti e due. Poi lui è andato a giocare a New York e anche io ho chiuso la mia carriera da calciatore a Chicago. In occasione di un partita negli Stati Uniti mi è venuto a prendere, mi ha portato a casa sua e siamo stati insieme tutto il giorno. Lì ci siamo capiti fino in fondo e ho compreso l’uomo in tutta la sua intimità

Il vostro allenatore Tommaso Maestrelli è stato quasi un padre. A lei che cos’ha dato prima che la malattia lo portasse via?

Mi ha insegnato a vivere la vita nella sua interezza capendo le esigenze degli altri e poi mi ha insegnato “a morire”. Quando era ricoverato nella clinica lo incontrai prima che morisse e ha capito che ero in difficoltà. È riuscito anche negli ultimi momenti della sua vita a liberarmi dal mio imbarazzo e dal mio dolore dicendomi “vai pure”.

Voi però non avevate idee politiche simili, vi siete confrontati anche su questo?

Lui aveva fatto il partigiano ma non era condizionato minimamente dalla politica. Maestrelli era un uomo eccezionale, non potevi pensare male di lui. Ti guardava, ti sorrideva e ti diceva la frase giusta al momento giusto. Capiva di che cosa avevi bisogno in quel momento e ti diceva la frase giusta, poi tu dovevi lavorarci.

Quando avete vinto lo scudetto vi hanno etichettato come “banda di fascisti”. Le ha dato fastidio?

Quella fu una definizione di Pasolini, l’uomo di cultura più ascoltato in Italia all’epoca. Disse queste esatte parole: “un manipolo di fascisti ha vinto lo scudetto in Italia”. Io dissi ai giornali: “un manipolo di uomini liberi ha vinto lo scudetto in Italia” e mi ignorò senza più rispondere.

Se ripercorre al sua carriera politica da parlamentare di Alleanza Nazionale cosa può dire oggi?

Io votavo Almirante e poi ho fatto dieci anni in parlamento con Alleanza Nazionale. Mi sono sempre sentito un uomo di destra anche se vengo da una famiglia in cui mio padre era socialista. Sono sempre stato sostenitore di una destra patriottica ma non nostalgica del fascismo.

Com’era la Roma dell’epoca? Era l’Italia violenta degli anni di piombo..

Chinaglia fu il primo a dichiarare che avrebbe votato Almirante e poi lo dichiarai anche io. Ai giornalisti dissi: “è la prima volta che sono d’accordo con lui”. Ci dissero che le Brigate Rosse volevano spararci alle gambe. Noi comunque non avevamo paura di niente e camminavamo senza problemi per strada. Eravamo fatti così.

Com’ è nata la passione per le pistole durante il ritiro? Chi portava le armi?

Noi ci volevamo confrontare su tutto e quindi si è arrivati anche ad utilizzare le pistole per esasperare la rivalità. Non c’erano le pistole perché eravamo pistoleri, era il mezzo migliore per lanciare la sfida sempre più lontano.  Il primo che l’ha portato credo sia stato Petrelli e abbiamo messo dei bersagli in ritiro per sparare. Io ero l’unico che non l’aveva e se andavo a sparare andavo solamente al poligono. Maestrelli mi chiese anche di controllarli tutti perché non si facessero male.

Chinaglia però comprò anche il fucile…

Chinaglia quando non faceva centro dava sempre la colpa alla pistola. Non voleva ammettere che non era in grado. Poi ne comprò altre ma per come era fatto lui avrebbe comprato anche un cannone per buttare giù tutti i bersagli e dire: “Visto che sono più bravo di voi?”

Ci racconta la sua passione per il volo e quella per il paracadutismo?

Il volo è sempre stato il mio desiderio più grande e sono stato pilota per 30 anni. Saltare giù da un aereo però era un richiamo fortissimo e decisi di fare il corso. Il presidente Lenzini non disse una parola e anzi chiese se poteva venire anche lui per vedere quando mi lanciavo.

In quella passione coinvolse anche il suo compagno Luciano Re Cecconi scomparso tragicamente. Che uomo era?

Re Cecconi cercava l’amicizia ed era capace di darti la più grande amicizia del mondo. Quando mi iscrissi disse: “Sei un pirla, la testa non ti funziona ma le gambe si, perché te le vuoi rovinare?”. Disse che non mi avrebbe seguito ma invece il giorno dopo si è iscritto anche lui. Eravamo amici ma comunque in competizione per goliardia.

Sul campo di fatto eravate complementari, qual è stato il vostro segreto?

All’epoca c’era la marcatura a uomo e quando mi sganciavo in avanti lasciavo libera gente come Bruno Conti, Franco Causio, Claudio Sala. Lui allora scalava in copertura e prendeva il mio uomo. Quando ero comandante d’aereo portai in volo Trapattoni e parlammo insieme di questa chiave tattica. Disse che quell’atteggiamento era difficile da contrastare ed eravamo fastidiosi. La Lazio ebbe anche un’offerta dal Milan nel 72 perché Rocco ci voleva entrambi. Il presidente Lenzini però disse di no.

Le dispiace che la squadra venga ricordata come una banda specchio della Roma negli anni di piombo? Non vi ricordano dal punto di vista tecnico?

No, non non mi dispiace. Ogni giocatore era tra i primi nel ruolo nelle classifiche. Io sono stato per tre anni il miglior terzino votato dai giornalisti. Non mi dispiace perché saremo sempre ricordati quasi come un pensiero romantico: undici pazzi, undici anarchici, tutto quello che si vuole dire.

Maestrelli potrebbe essere ricordato anche come un grande innovatore del calcio. È d’accordo?

Maestrelli è stato sottovalutato tecnicamente perché veniva sempre raccontata questa sua grande capacità di interagire con l’anima delle persone. Una qualità unica. Ma è stato anche capace di vincere due volte il premio “Seminatore d’Oro” assegnato all’epoca dalla Figc di cui uno con il Foggia in Serie B. Prima del calcio totale olandese c’era la Lazio di Maestrelli, fu un precursore del calcio totale.

Il destino ha portato via tanti sui compagni dello scudetto in modo crudele. Che sensazione ha se ci pensa?

Abbiamo pagato un caro prezzo e a quelli che sono rimasti come Giancarlo Oddi dico scherzosamente: “Andate avanti voi, perché ci sono io a raccontare e scrivere di quanto eravate bravi. Poi un giorno ci rivedremo”.

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